Imposta sulle insegne
Aziende contro Comuni per l’imposta su insegne pubblicitarie di attività in franchising
Ogni anno gli enti locali intascano cento milioni di euro tassando le insegne degli esercizi che utilizzano un marchio commerciale di terzi. Ma i titolari sostengono di aver diritto alle stesse esenzioni riservate agli altri cartelli normali. Leggi, circolari e giurisprudenza sono dalla loro parte. Così qualcuno è passato alle vie legali
Cento milioni di euro. È questa, stando ai dati di Assofranchising e Confimprese, la stima prudenziale del tesoretto che ogni anno i Comuni mettono da parte tassando le insegne pubblicitarie delle attività in franchising (la formula con cui un imprenditore avvia un’attività appoggiandosi a un marchio consolidato) o che utilizzano ad altro titolo un marchio commerciale. Questo in virtù di un’interpretazione, contestata da anni dai titolari di esercizi in franchising, secondo cui le esenzioni dal pagamento dell’imposta previste per le insegne normali non varrebbero per quelle di chi usa un marchio di terzi. In realtà la normativa quadro nazionale (il decreto legislativo 507/1993, ndr) prevede che tutte le insegne che non superano un’ampiezza di cinque metri quadrati godano dell’esenzione. Secondo Assofranchising, però, la stragrande maggioranza dei Comuni italiani distingue tra quelle di proprietà del titolare dell’esercizio commerciale e quelle ascrivibili al franchisor o a un brand nazionale e internazionale. E “risparmia” dall’applicazione della tassa solo le prime. Anche se di questo distinguo non c’è traccia né nella definizione di insegna presente nel Codice della strada, né in quella della legge nazionale.
Va poi detto che ben dodici anni fa il ministero dell’Economia si pronunciò sul tema attraverso una circolare, successivamente inviata ad Anci e a tutti i Comuni italiani, chiarendo che sono insegne a ogni effetto “le insegne di esercizi commerciali in franchising, in quanto l’insegna assolve alla sua funzione a prescindere dal rapporto contrattuale che lega il titolare del marchio ed il suo concessionario di uso”. Del resto, come precisò l’atto interpretativo del ministero “lo stesso articolo 5, comma 1, del D.Lgs. n. 507 del 1993, individua il soggetto passivo dell’imposta sulla pubblicità in colui che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso, non operando alcun tipo di distinzione in ordine alla titolarità del marchio raffigurato nell’insegna”.
Peraltro, in coerenza con questa impostazione, alcuni Comuni hanno già legiferato una parte, seppur esigua, del panorama dei Comuni italiani. Tra questi spicca Parma, nel cui regolamento attuativo si dice espressamente che anche le insegne in franchising possono beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’imposta di pubblicità nel caso in cui non superino i cinque metri quadrati. Questa linea è stata confermata nel gennaio 2013 da una sentenza-ordinanza della Corte di Cassazione che chiarisce: “Il comma 1-bis dell’art. 17 del d.lgs. 15 novembre 1993, n.507 […] che esenta dall’imposta le insegne di attività commerciali e di produzione di beni o servizi nei limiti di una superficie complessiva fino a cinque metri quadrati non consente di introdurre distinzioni in relazione al concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell’insegna stessa, purché la stessa, oltre ad essere installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale”.
Ma gran parte dei Comuni continua a fare melina. Così, per “avere giustizia”, c’è chi ha deciso di ricorrere alle vie legali. È il caso di Francesco Palermo, imprenditore con una quarantina di punti vendita in franchising di oggetti preziosi, oreficeria, orologeria e oggettistica da regalo in Emilia-Romagna, che ha impugnato una serie di cartelle relative all’imposta di pubblicità del comune di Modena. “Materia del contendere”, spiega, “non è la cifra delle cartelle (2.200 euro circa), ma l’interpretazione che l’amministrazione comunale e il suo braccio operativo Ica (l’ufficio gestione affissioni, ndr) danno sull’applicazione dell’imposta di pubblicità alle insegne con marchi di franchising. Secondo i miei legali, alla luce di direttive ministeriali e di recenti pronunciamenti giurisprudenziali si tratta di un’interpretazione arbitraria, che introduce una discriminazione tra insegne di esercizio di cui la normativa nazionale non parla”.
“La mia è una causa-pilota che spero serva a tanti, perché qui sono in ballo centinaia di migliaia di euro”, dice Palermo, “e con esse la sopravvivenza stessa di molte imprese”. Dal canto suo, il comune di Modena si è limitato a precisare come la norma che esenta dall’imposta l’insegna inferiore ai cinque metri quadrati si riferisca “alle “insegne di esercizio” che, quale segno distintivo dell’azienda, devono possedere requisiti di originalità e novità che non si rinvengono nelle insegne dei “franchising”, come confermato da numerose sentenze”. La battaglia legale si preannuncia dura. Vedremo nelle prossime settimane chi la spunterà in primo grado di fronte alla commissione tributaria.
di Alberto Crepaldi